domenica 28 settembre 2008

好きだ (sukida)


好 き だ 、(su ki da)
La traduzione libera di questa piccola frase in lingua Giapponese suonerebbe come: “ti amo”. Tanto più inflazionata quanto meno speciale, tanto più speciale quanto meno la si dice, tanto più dolorosa quando la si custodisce nel cuore come un pesante fardello da custodire in lunghi anni di attesa e oblio, tanto più fulgidamente chiara quando il ricordo diventa nuovamente realtà, obliando l’oblio stesso. Il Silenzio, un attore reclutato per la seconda volta dal bravo Hiroshi Ishikawa, dopo il primo ardito esperimento chiamato Tokyo Sora. Per la seconda volta ho avuto la possibilità di osservare come la fotografia e il soggetto di un film possano essi stessi diventare una solida sceneggiatura, rendendo le parole superflue e la recitazione fisica padrona della scena. Se in Tokyo Sora forse il soggetto era abbastanza vasto da risultare dispersivo pur con un adeguato montaggio, in Sukida Ishikawa ha preso il suo spazio per approfondire la sua storia senza imboccare strade secondarie superflue. Siamo nella campagna Giapponese, una piccola cittadina, una scuola come tutte le altre, dei ragazzi come gli altri vestiti come tanti altri, un fiume non di grandi dimensioni dotato di argini a gradoni, tutti abitanti di un mondo monocromaticamente virato in tonalità bluastre di divise scolastiche e prati di un pallido verde, tutti sovrastati da un cielo multicolore ed espressivo a volte nella grigia monotonia di una comune giornata, a volte nell’allegria policromatica di un tramonto speciale. Il Cielo, un elemento assai caro e carismatico al il regista che gli ha già dedicato il titolo del suo precedente lavoro (Tokyo Sora in Giapponese significa “il cielo di Tokyo”). Yu è innamorata segretamente di Yosuke, un ragazzo dedito al baseball che lascia lo sport per dedicarsi alla musica, sperando di vivere di essa in futuro. Yosuke si siede ogni giorno sull’argine del fiume per esercitarsi con la sua chitarra, e Yu lo segue ogni giorno ascoltandolo pazientemente, e imparando l’ossessiva melodia di una canzonetta inventata dal ragazzo facendo di essa la piccola colonna sonora di giornate grigie. Una grave disgrazia divide i due ragazzi che non si rivedranno più, se non dopo diciassette anni, quando un fortuito incontro cambierà le loro vite. Sembrerebbe un soggetto abbastanza semplice da filmare, forse scontato ed inflazionato, ma Ishikawa riesce a rendere la visione di questo film un’esperienza sensoriale unica, quasi organolettica, filmando campi lunghi con camere a spalla, e utilizzando come una bibbia la ripresa fissa, minimalista e violentemente espressiva nella sua studiata asimmetria, dando profondità di campo con abili sfocature e spezzando il ritmo con un montaggio apparentemente improvvisato che a volte spezza una scena per riprenderla da un punto non contiguo ma contingente. Oltre alla fotografia, il sonoro è registrato in presa diretta, penso con microfoni portati dagli stessi attori, e ogni respiro nei tanti silenzi è emozione, tristezza, disperazione, allegria; una risata spontanea è vita, un abbraccio amore e passione. Per la tempistica cinematografica la pellicola si potrebbe definire lenta, ma ad un secondo ragionamento l’attesa, l’ansia, lo stare a guardare la propria vita che si sfalda in un momento sono la triste lentezza del tempo che no passa mai come una sottile tortura. Allora non basta solo guardare il film, bisogna immedesimarsi nella storia, e Ishikawa ce ne da tutti gli strumenti fisici per farlo con successo. “Sukida”: una frase che sussurrata una sola volta, a voce bassa, vale quanto mille romanzi e film d’amore. Un film bellissimo, un quandro dipinto dalla mano ferma di un artista che sa cosa comunicare e come farlo.

好きだ (suki-da), Giappone, 2005

Regia, Hiroshi Ishikawa

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