domenica 28 settembre 2008

カタクリ家の幸福 (The Happiness Of The Katakuris)


Domanda: per quanti cineasti contemporanei sareste disposti a spendere la parola "genio"? A naso, così, di primo acchito, a noi vengono in mente cinque-sei nomi, non di più. E non sempre si tratta dei cineasti più talentuosi o dotati del momento. Il genio è una categoria a sé, che prescinde dalla riuscita o meno delle opere. È qualcosa che sfugge dalle classificazioni, e ancor più dalle irregimentazioni, che se ne frega altamente della popolarità, che emerge magari a sprazzi, improvvisamente, e se non sei pronto a captarne i fugaci barlumi corri il rischio di non accorgertene nemmeno.All’interno di questo ristretto novero di cineasti di oggi affetti da genialità congenita, ci sembra quasi doveroso inserire il nome di Takashi Miike, fuorilegge anarcoide della settima arte, bulimico di cinema all’ultimo stadio (anche quattro-cinque film in un anno), noto per la rapidità con cui scrive/dirige/monta i suoi film, per la violenza parossistica di cui molti di essi sono impregnati, per il gioco estremo e estremamente postmoderno (nel senso più proprio di un termine sin troppo abusato e vilipeso nei suoi significati più profondi) sui generi. Takashi Miike è il cineasta dello shock, dell’abbattimento delle soglie del visibile, del superamento della nozione di gusto; cinema della crudeltà allo stato puro quello di Miike, selvaggio e incontrollabile, sorprendente proprio perché si offre come paradigma di uno sguardo finalmente libero da condizionamenti etici. In Takashi Miike prende vita e respira un cinema rigorosamente di genere – e proprio qui sta il bello!!! –, e come tale pensato appositamente per il pubblico, ma libero e incontrollato come un prodotto d’avanguardia.The Happiness of the Katakuris è l’esatta cartina tornasole di una pratica cinematografica che diviene stile nel suo stesso dispiegarsi, traendo la propria essenza proprio dalle aporie tra un’opera e l’altra. Qui ci troviamo di fronte a un testo già di per sé sincretico e ondivago. Remake – provocazione nella provocazione – di una pellicola sudcoreana, The Happiness of the Katakuris è un indecifrabile ibrido di sit-com, musical, horror-splatter e melodramma, con in più un finale autenticamente – e beffardamente – apocalittico, vero e proprio brand del cinema di Miike (come non richiamare alla memoria lo spassoso e inesorabile finale di Dead or Alive – Chapter 1?). Sin dall’incipit, tre minuti di passo uno con un demone bonsai in plastilina che emerge da una zuppa (assieme a un occhio umano…) per estirpare (nel vero senso della parola) un pegno d’amore dalla sua "bella" (nota bene: questa "intro" è completamente avulsa dallo sviluppo successivo del film), si capisce subito che ogni logica è bandita dalla narrazione. E quando ci immergiamo nelle surreali vicende dei simpatici Katakuri, famigliola della media borghesia alle prese con fenomeni paranormali incontrollabili, siamo ormai irrimediabilmente perduti in una dimensione parallela fatta con le frattaglie di un immaginario paratelevisivo luccicoso dal quale è sin troppo facile estrarre l’anima putrescente.In un film dove quasi ogni inquadratura è una sorpresa, è difficile estrapolare i momenti più riusciti. Ci piace concedere una stilla di simpatia in più ai momenti musicali, talmente sgangherati eppure così coinvolgenti – e a tratti persino commoventi – da convincerci che si tratti di qualcosa di più di una semplice trovata per pater le bourgeois. In realtà, in The Happiness of the Katakuris, ogni cosa, anche la più insensata, trova una sua legittima collocazione all’interno di un contesto in cui il grado di seduzione è dato proprio dall’assenza di motivazione, dal nonsense puro. Catastrofico e irriverente come un concentrato di fratelli Marx in salsa trash, Miike rivela anche un’anima gioiosa nel narrare di una progressiva degenerazione "cosmica" di un’umanità sull’orlo dell’Apocalisse, che come in un romanzo di Thomas Pynchon continua a cantare e ballare mentre il mondo, l’universo intero, o perlomeno l’immagine che noi abbiamo di esso, collassa e precipita in un abisso senza fondo. Ridere – e farci ridere – della propria fine: questo sembra essere il destino dei personaggi di Takashi Miike. L’Armageddon dell’immaginario, questa volta senza possibilità di palingenesi, si compie nel segno di uno smembramento progressivo dei corpi, mentre un burattinaio sadico si diverte a narrarci le sue storie demoniache, tragiche, comiche, grottesche; riuscendo a farci ridere di noi stessi, della nostra umanità perduta, del degrado dello sguardo, che è anche degrado del pensiero. Se il sonno della ragione genera mostri, allora la ragione è in coma irreversibile.
giovedì 8 aprile 2004 di Sergio Di Lino
Recensione tratta da Cinemavvenire
カタクリ家の幸福 (Katakuri-ke no Kofuku - The Happiness Of The Katakuris)
Giappone, 2001 - Regia di Takashi Miike

Nessun commento: