domenica 28 settembre 2008

ピックニック (Picnic)

Pensavo di dovermi adattare a passare due ore del solito Iwai, immagini saturate, storie dolci e romantiche, politically correct farcito di ottimo autolesionismo giapponese, ma mi sbagliavo. “Picnic”, del 1996, si differenzia a tal punto dagli altri da sembrare anomalo, un momento artistico del regista fatto di cambiamento, o magari di sperimentazione. La storia narra di una ragazza, con problemi psichici, che viene fatta ricoverare in maniera coatta dai genitori in un istituto di igiene mentale. La crudezza della scena della coppia, che, impettita ringrazia formalmente gli addetti dell’istituto che strattonano la ragazza portandola con forza all’interno di esso, e la totale assenza di un minimo segno di titubanza da parte dei due ad abbandonare la figlia a un inferno, mista alla forzata necessità e volontà di tornare, con l’abbandono, a una probabile situazione familiare comoda e convenzionale, ci catapulta in quel giappone dove la convivenza sociale fa a pugni con la solidarietà sociale. Gli individui “diversi” sono da scartare, un po’ come in quell’ideale nazional-socialista-fascista della selezione razziale. Qui però il disprezzo del diverso è sostituito dalla vergogna e dall’onta del convivere con quella perfezione rituale di cui autolesionisticamente si dota la società giapponese. Il secondo motivo di stupore è stato la durata della pellicola: un’ora scarsa. Iwai finora ha utilizzato il cosiddetto mediometraggio tre volte, oltre che con Picnic anche con 四月物語 (April Story) e Undo, e sembra trovarcisi abbastanza a suo agio. Personalmente ritengo sia difficile preparare una sceneggiatura appagante per lo spettatore montando il girato per una durata complessiva così relativamente breve cinematograficamente: non si ha tra le mani una storia completa da lungometraggio; non l’idea precisa o la subitanea sensazione di un “corto”, entrambe espressioni già ampiamente sperimentate ed affermate: è un campo abbastanza delicato da affrontare, senza rischiare di lasciare una sensazione di scomoda e inspiegabile incompletezza. “Picnic” è comunque un’ottimo mediometraggio, al contrario di April Story. Un argomento scomodo, quello delle malattie mentali, reso dal regista con crude consapevolezza e realismo, senza cadere nella falsità di un fastidioso perbenismo retorico, parlando attraverso un linguaggio ricco di simbolismi. Coco, presto soprannominata nell’istituto “Il Corvo Nero” a causa del suo abbigliamento e del suo scialle preferito, costruito da piume nere di corvi da lei stessa trucidati, fa conoscenza con altri due ragazzi lì ricoverati: Satoru e Tsumuji. I due, vicini di cella e amici, sono introdotti nella storia in un modo brutale: il primo, nell’atto di maturbarsi; il secondo, affrontando un mostro deforme che esce dal muro, rappresentante l’incubo di un passato da dimenticare: il suo professore delle scuole superiori morto sotto la mano omicida dello stesso ragazzo. Iwai, col montaggio nevrotico che caratterizza la scena mi ha sorpreso moltissimo. Il professore chiede a Tsumuji di sbottonargli i pantaloni perchè ha necessità di urinare, il ragazzo procede e spunta un organo genitale terrificante, fatto di tanti piccoli peni, inutile dire che la minzione della creatura si trasforma in una piccola e orrida inondazione: incubi che impestano la mente e il cuore, con la colonna sonora e lo sfondo dell’amplesso del compagno vicino di cella. Crudezza, questa, limitata all’interno delle mura dell’istituto assieme a violenze che neanche la bestia più immonda meriterebbe. I tre, comunque inconsapevoli della realtà che vivono, decidono di uscire dalle mura del complesso sanitario per una piccola esplorazione, utilizzando una scaletta per scavalcare il basso muro di cinta col filo spinato. E fuori un tripudio di colori li accoglie, odori e luce inondano il cuore dei ragazzi, che storditi e stupefatti, vagano come alieni. Alieni di un mondo che non appartiene loro, alieni in una socetà che li vede diversi, che li vuole diversi. La prima fuga si conclude col rientro all’istituto, dove una cella d’isolamento li ospiterà per qualche tempo. Alla fine del periodo di internamento, i tre escono di nuovo, questa volta con l’intento di fare un picnic all’aperto. Dal muro di cinta dell’istituto proseguono camminando sulla sommità dei muri adiacenti, passando di confine in confine, senza mai scendere a terra. Un rispetto delle regole, secondo loro, il fatto di non mettere piede per terra, forse per paura: un simbolo importante per l’autore che li vede come creature diverse, incapaci di relazionarsi col mondo, con la vita, scappati da quel luogo di tortura che però li teneva in vita. Angeli spodestati del loro paradiso e privati delle loro ali, per i quali ormai scendere a terra vuol dire morte. Un prete, affacciandosi alla porta della sua chiesa, li vede sul muro che ammirano il coro di un gruppo di bambini, e gli si avvicina per parlare con loro. Dopo aver tentato di parlare con loro dei massimi sistemi e aver tentato una improbabile evangelizzazione, regalerà loro una bibbia, un dono che Tsumuji apprezzerà tantissimo, facendone presto una ragione di vita, affidando alla sua stessa vita le parole dell’apocalisse e aspettando una fine che presto verrà. Il mondo esterno non sarà certo clemente coi tre. Un finale che dice tutto sulla speranza di sopravvivenza di un individuo diverso in una società e in un mondo troppo veloce e distratto, formale e sociale, una socialità che anziché aggregare fa selezione, che da strumento di benessere diventa strumento di selezione naturale. Cast d’eccezione, questo, con il “principe” Tadanobu Asano, già visto in innumerevoli pellicole come Zatoichi, di Takeshi Kitano; 茶の味 (The Taste Of Tea), di Katsuhito Ishii; Ichi the Killer di Takashi Miike, e via dicendo. Tadanobu Asano, talmente popolare in Giappone che il Time gli ha dedicato una copertina, è sposato con la protagonista femminile del film, Chara, una popolare cantante pop prestata alla cinematografia.In conclusione, un affresco simbolico e astratto intriso di significati, condensato in un’ora di intensità assoluta, ma purtroppo non ci libereremo mai di quel pianoforte ossessionante che suona per tutta la durata del film una musichetta stucchevole, se non per ascoltare un coro di bambini giapponesi cattolici che cantano in un improbabile inglese: è lo stile di Iwai, quasi un marchio di fabbrica. Esperimento riuscito, per questa volta, Shunji.
ピックニック (Pikkunikku - Picnic), Giappone, 1996
Regia, Shunji Iwai

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